mardi 18 janvier 2011

Cyclus


Quanti km si possono percorrere con un set di pneumatici? Diverse migliaia sicuramente, dopodiché bisogna cambiarli con un set nuovo, se non si vuole rischiare di avere incidenti. Le vecchie gomme continueranno però ad accompagnarci come portafogli, borse, zaini, cinte. Non vi preoccupate non avete letto male. Facciamo un passo indietro: tutto nasce nel 2002, quando una coppia di studenti colombiani, Ximena Vélez e Jorge Burgos, presentano un progetto di tesi all'università di Bogotà, la capitale del paese sudamericano. Il loro progetto consiste nel fabbricare oggetti di diverso tipo partendo appunto da pneumatici dismessi che vengono recuperati nei garage dei vari gommisti sparsi nella città, contribuendo in questo modo allo smaltimento dell'enorme quantità di gomme prodotta dal traffico infernale di Bogotà. La presenza di due giornalisti alla discussione della tesi ha permesso loro di avere un eccellente ritorno in termini di pubblicità. Sono state così subissati di richieste da parte di persone che avevano letto gli articoli che parlavano della loro idea. Hanno perciò deciso di cogliere la palla al balzo e di continuare per la strada intrapresa a mo' di esperimento. Oggi Cyclus, questo il nome della loro ditta, è un atelier in cui lavorano 26 persone, provenienti in gran parte dai quartieri poveri della città.
Ma perché la scelta è caduta proprio sugli pneumatici? In effetti, in un primo momento, ci si era indirizzati verso altri materiali di scarto facilmente reperibili nella città colombiana attraverso la catena di “recicladores”, le persone cioè che raccolgono per rivenderli tutti quei materiali suscettibili di essere riutilizzati. Solo in un secondo momento la scelta è caduta sulle gomme delle macchine, che offrono diversi vantaggi come la versatilità, la morbidezza ed anche una certa bellezza ed “eleganza”, qualità che permettono la realizzazione di tutta una serie di oggetti in sostituzione del cuoio (per la gioia degli animali).
Una volta recuperato, il materiale viene portato nell'officina dove subisce le varie lavorazioni: dapprima il pneumatico viene tagliato e ridotto in pezzi più piccoli. Viene quindi lavato, lucidato ed infine lavorato per essere definitivamente trasformato. Oltre alle gomme, altri materiali di scarto vengono riutilizzati per foggiare i diversi articoli, come le cinture di sicurezza, utilizzate per realizzare le tracolle, oppure i contenitori in tetra-pack. Allo stesso modo, le sedie in plastica degli autobus di Bogotà, una volta dismesse dalla compagnia di trasporto, vengono recuperate ed affidate a giovani artisti che le trasformano in oggetti di design unici, contrassegnati da un elevato standard di eleganza. Gli scarti della lavorazione, a loro volta, non vengono gettati ma possono essere riciclati per altre finalità.
L'idea che costituisce il punto di partenza è la sostenibilità ambientale attraverso il recupero e lo smaltimento di pneumatici che finirebbero altrimenti nelle discariche o incendiati, provocando così un danno ambientale. Ximena e Jorge hanno deciso di essere conseguenti con i propri principi: Cyclus è il tentativo di riconnettersi con la natura ed il mondo, dove l'uomo è un elemento fondamentale. Secondo le loro parole “L'insieme degli uomini è una totalità che attua in uno spazio, fatta di storie che ne compongono una più grande e che generano un sogno collettivo”. Ed è proprio questo agire collettivo e cosciente che costituisce la forza del progetto. Secondo i due imprenditori, più questa unione sarà forte, più il messaggio si diffonderà, continuando a solleticare la fantasia di un numero sempre maggiore di persone.
Ma il progetto Cyclus vuole guardare ancora più in là senza limitarsi solamente alla eco-compatibilità: non si può difendere l'ambiente se al tempo stesso le condizioni di lavoro non sono eque. La salute del pianeta non può passare sulla pelle dei lavoratori. È stato così deciso che se il progetto non fosse stato sostenibile anche da questo punto di vista, Cyclus non sarebbe sopravvissuto. Avviene così che il progetto ha delle ricadute benefiche a livello sociale, coinvolgendo giustamente gli elementi più fragili della società: gli abitanti dei quartieri più poveri, le madri di famiglia e le popolazioni indigene. Gli stipendi sono superiori al salario minimo fissato per legge in Colombia, e alla fine del mese viene riconosciuto un bonus ai lavoratori. Le popolazioni indigene, in particolare, sono in una situazione particolarmente precaria: esposte da un lato alla violenza del conflitto armato che ancora insanguina la Colombia e dall'altra alla marginalità del proprio territorio, lontano dai mercati dove poter commerciare, sono sempre esposte al rischio di dover abbandonare le terre ancestrali e perdere con esse le proprie tradizioni e la propria cultura. Inoltre, realizzando per Cyclus i tessuti tipici della propria tradizione, viene garantito il perpetuarsi di saperi e tecniche ancestrali.
Oppure, sempre in città, si è cercato di coinvolgere nell'attività manifatturiera le madri di famiglia. Lavorando nelle proprie abitazioni, queste hanno così la possibilità di rimanere accanto ai figli, altrimenti esposti alle tentazioni della vita della strada ed ai cattivi esempi. Riescono così a evitare i lunghissimi spostamenti necessari in una città enorme e tentacolare come Bogotà e che possono togliere anche 5-6 ore nell'arco della giornata.


Per rendere più capillare ed integrata la propria azione, Cyclus collabora con la ONG colombiana AHMSA, la rete nazionale di fornitori di prodotti del “buon senso”. Del resto è proprio il buon senso che può assicurare condizioni di vita giuste per tutti ed evitare sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, causa prima del malessere sociale. Attraverso il lavoro basato sul buon senso, il progetto di Cyclus ci mostra la via per un modo di vita equo, sostenibile e responsabile. Pian piano, i prodotti “eco-equi” sono sbarcati in Europa. La stessa Alfa Romeo ha commissionato per un suo salone delle borse con il marchio della casa milanese. Il ciclo si è così completato e le gomme, utilizzate, consumate, gettate, recuperate, tagliate, lavate, trasformate, conoscono una nuova vita.

In Italia gli articoli di Cyclus sono reperibili nei punti vendita di diverse cooperative di commercio equo e solidale. Il catalogo dei prodotti è consultabile in linea al sito internet di Cyclus: www.cyclus.com

Don Elvis


La musica rock è la musica del diavolo. Non esiste sciocchezza più grande e se a dircelo è don Antoniu Petrescu, parroco della chiesa di S. Giovanni ad Avezzano, possiamo tranquillamente crederci. Lo dice dal palco su cui si sta esibendo nelle vesti un po' particolari di cantante in un evento organizzato per raccogliere fondi destinati ad aiutare la popolazione terremotata d'Abruzzo. Il concerto si svolge nella piazza centrale di Avezzano, importante centro abruzzese, gremita nell'occasione per manifestare solidarietà verso i cugini Aquilani colpiti dall'immane tragedia, ma anche per assistere alla performance di don Antoniu Petrescu nelle vesti del suo grande idolo musicale: Elvis Presley. Don Antoniu diventa così don Elvis e intrattiene il pubblico con consumata perizia per un'ora buona in cui alterna canzoni del mitico cantante di Memphis a brevi discorsi in cui traspare l'uomo di religione. Tra canzoni d'amore, rock e messaggi di fede cristiana dà libero sfogo al suo estro musicale e alla sua passione. Il messaggio che più spesso ritorna è di “non avere paura di essere se stessi e di tirar fuori dall'anima tutto quello che c'è di positivo”, riferimento neanche tanto velato alle polemiche che spesso accompagnano le sue performance.
Del resto, la sua vocazione musicale è iniziata ben prima di quella religiosa. Sin da piccolo don Elvis ascoltava la musica, studiando diversi strumenti musicali tra cui non poteva certo mancare quello che costituisce l'essenza stessa del rock: la chitarra.
Musicista rodato, quindi, e non cantante improvvisato, se è vero che ha realizzato, dopo diversi singoli incisi, il CD “Divino Amore”, in cui egli luce nella doppia veste di autore e cantante. Il primo lavoro risale in effetti al 1999. Ma la sua carriera artistica non si limita a questo. Vanta anche diverse collaborazioni con artisti internazionali, tra cui una cantante lirica coreana con cui ha curato la versione destinata al paese dell'estremo oriente della sua canzone “Dolce sentire”.
Man mano che la sua attività musicale diventa più intensa, si moltiplicano le sue apparizioni nei media italiani e stranieri: diventa così ospite di diverse trasmissioni televisive della RAI, ma anche della televisione francese, oltre ad essere notato dalla stampa nazionale ed estera.
Questa mediatizzazione della sua figura provoca tuttavia qualche scontento. Non sono pochi i mugugni o gli sguardi pieni di disapprovazione che accompagnano don Elvis quando percorre le strade di Avezzano. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, sono i giovani che hanno sempre manifestato una certa distanza dalla Chiesa quelli più scettici. I suoi parrocchiani, al contrario, sembrano aver superato perfettamente la diffidenza iniziale e guardano adesso con simpatia ed attenzione al prete anticonformista. Quando don Elvis officia la pastorale lo fa seguendo la sua vocazione religiosa lasciando fuori dalla chiesa l'artista. Egli stesso è ben attento a questa doppia veste che ricopre ed è consapevole che il linguaggio di Dio e della musica non sono alternativi ed opposti, ma anzi possono completarsi a vicenda. Nel suo blog campeggia in effetti la frase “ho imparato da tanti anni che senza musica la giornata non finisce, che senza musica non si hanno amici e che senza musica non si può amare”.
Così, se da un lato suscita scetticismo, dall'altro la sua figura anticonformista è riuscita a riavvicinare molti giovani alla Chiesa, in virtù della rottura delle convenzioni che egli opera. Forte di questa consapevolezza, don Elvis mi spiega molto serenamente come riesce a far convivere queste due vocazioni che lui non sente in alcun modo in contrapposizione. All'inizio ha avuto delle difficoltà che gli hanno procurato amarezze e dispiaceri, come lui stesso ammette nel suo blog, ma alla fine, quelli che lo avversavano hanno dovuto ricredersi sulla sua vocazione e sincerità. Del resto, il filone di cantautori religiosi conosce antecedenti illustri, non solo nel nostro paese. Basti ricordare in Francia Sœur Sourire (Suor Sorriso) o Père Duval che tenne un concerto di fronte a 30.000 persone a Berlino, oppure l'associazione “Cantautori di Dio” che riunisce più di 100 cantautori ispirati dal messaggio cristiano. Ma don Elvis si distingue tuttavia dai suoi colleghi perché riesce a coniugare in maniera molto più forte e singolare il messaggio di cui è portatore e lo spettacolo di cui è protagonista. In questo, nonostante le differenze di stile e genere musicale, è molto più simile a Frate Metallo, altro uomo di chiesa che ha saputo generare una certa curiosità per le sue esibizioni come cantante di musica Metal. O forse don Elvis rappresenta, meglio di tutti i suoi colleghi, il superamento della crisi della Chiesa di fronte al linguaggio e ai valori di cui l'ideologia capitalista si fa portatrice. Come faceva notare Pierpaolo Pasolini, la pubblicità, massima espressione in questo senso dello spirito capitalista, sconvolge la morale religiosa attraverso l'accostamento di sacro e profano. Ne forniscono alcuni esempi la pubblicità dei jeans “Jesus”, che il regista friulano analizzava negli anni '70, dove messaggi evangelici campeggiavano sulle natiche in bella mostra di una ragazza procace, oppure la pubblicità della catena di fast-food Kokoriko che promuove hamburgers di pollo ricorrendo all'immagine del cuore di Gesù. Don Elvis, con il beneplacito delle gerarchie ecclesiastiche, compie questo percorso a ritroso per ricomporre i due linguaggi, il religioso e il secolare, specchiandosi nel personaggio che può sembrare il più antitetico alla morale evangelica. Elvis Presley perde così i suoi tratti trasgressivi per diventare una nuova icona cristiana.

Guaqueria


La Colombia ha conosciuto molti periodi d’abbondanza che vanno sotto il nome di bonanza: la bonanza del tabacco durante la guerra civile americana, quando la diminuzione della produzione della pianta nel nord del continente permise alla Colombia di supplire al deficit di tabacco con la sua produzione; la bonanza del caucciù durante la seconda guerra mondiale, quando le necessità belliche degli alleati determinarono un aumento della domanda di questa materia prima; la bonanza marimbera, legata al traffico di marijuana negli anni ‘70 e la bonanza della cocaina durante gli anni ‘80. Questi periodi d’abbondanza sono stati perciò il risultato di congiunture particolari in cui si è avuto lo sviluppo di un’attività dove molte persone vi si ritrovavano con la speranza di arricchirsi. Una regione ha conosciuto negli anni ‘80 una sua bonanza: la zona smeraldifera di Boyacà, dipartimento vicino Bogotà. Si trova qui uno dei giacimenti di smeraldi più importanti al mondo attorno alla cittadina di Muzo, un piccolo centro di 9000 abitanti che, durante il suo periodo d’oro, ne contava circa 30.000. Gli smeraldi di Muzo sono molto apprezzati per la purezza ed il colore ed arrivano a Bogotà, dove vengono lavorati ed immessi nel circuito commerciale. Nel centro della capitale colombiana c’è il più grande mercato di smeraldi di strada al mondo dove tra mercatini e passanti vengono effettuate le transazioni. É questo il posto più sicuro di Bogotà: nessuno si azzarderebbe ad aggredire un venditore di smeraldi: ognuno ha una pistola con sé ed il ladro non riuscirebbe ad andare molto lontano. Da qui le pietre finiscono succesivamente nelle gioellerie d’Europa o del Nord America con il prezzo che ad ogni passaggio diventa più alto. La componente del lavoro del cercatore di smeraldi, “esmeraldero”, è una percentuale infima ed una pietra a volte può significare per il cercatore niente più di un pasto, a seconda della qualità della pietra.

Questa risorsa purtroppo non ha portato un’equa distribuzione delle ricchezze ed il grande sviluppo che questi luoghi hanno conosciuto è contrassegnato da contrasti incredibili. Muzo, con le sue miniere di smeraldi, è diventato un vero cimitero d’illusioni. Vi arrivano persone da tutto il paese e anche dall’estero, se è vero che tra i vari cercatori vi è anche uno svizzero. Vengono tutti con l’idea di scrollarsi di dosso la povertà, loro compagna fino nelle baracche costruite al lato delle miniere. Arrivano con l’idea di enguacarse e di andarsene presto, ma alla fine c’è chi rimane anche quaranta anni coltivando la stessa illusione.

L’espressione enguacarse deriva dalla parola india guaca, vale a dire tomba, e la loro ricerca si dice guaquerìa. Cercare le tombe vuol dire, infatti, cercare l’oro al loro interno. E’ un’attività che risale ai tempi della conquista da parte degli spagnoli ed alla sete d’oro che li portava a depredare le tombe delle popolazioni indigene. Gran parte dei tesori archeologici del paese sono stati infatti trafugati da cercatori mossi dalla povertà ed accecati dalla cupidigia. Per analogia con il termine guaquerìa s’intende la ricerca di ricchezze e, nel caso di Muzo, di smeraldi.

I minatori conservano una strana relazione con il mondo indio, una relazione piena di riferimenti non sempre coscienti. Come gli indios, i cercatori rappresentano il gradino più basso di una piramide sociale fortemente escludente. I tesori sarebbero concessi dalle tombe come segno di solidarietà, non appartenendo tuttavia al cercatore, ma alla comunità a cui devono essere ridistribuiti. Quando c’è ambizione l’oro si spaventa e fugge. Si racconta spesso di tombe rinvenute con oggetti pieni di terra e chi non ha avuto l’accortezza di tenerli ha perso una ricchezza perché la terra sarebbe in realtà dell’oro che ha assunto false sembianze per suggire alla cupidigia del cercatore.

Come i tombaroli che cercano ricchezze nelle tombe, così i cercatori di smeraldi arrivano a Muzo a tentare la fortuna con l’idea di trovare la pietra che permetta loro di scrollarsi di dosso la povertà, ma solo pochissimi ci riescono anche per ragioni piuttosto prosaiche. Sono molte le storie di cercatori che, dopo aver trovato una pietra da svariati milioni, si sono recati al paese più vicino ed hanno speso tutto in baldorie. Alla fine, tutti finiscono per tornare alle miniere ad inseguire ancora l’illusione, chiedendo addirittura in prestito il denaro per pagarsi il viaggio di ritorno.

Si compie in questa maniera la “maledizione” india ed il tesoro concesso al cercatore viene così ridistribuito alla comunità. L’ambizione è, infatti, fonte di sciagura e, quando si trova, il tesoro è foriero di sventure inimmaginabili. Sono molti i cercatori che hanno perso la vita dopo aver trovato uno smeraldo. Il cercatore deve trovare la pietra milionaria senza che nessuno lo sappia: al rendere evidente la propria fortuna si rischia, infatti, di perdere molto di più che non la semplice ricchezza. Uccidere e rubare è dopotutto una maniera più facile di arricchirsi che non continuare a cercare e a setacciare. Se viene trovata la pietra, diventa importante saper tacere ed essere discreti nascondendo agli altri la propria scoperta, anche a costo di ingoiarla, per recuperarla in un secondo momento tra l’intimità dei propri bisogni corporali. Per queste ragioni, anche dal punto di vista simbolico, per i cercatori di smeraldi arricchirsi è un’illusione: non vi possono essere cercatori ricchi. L’idea stessa d’arricchirsi con la guaquerìa è una contraddizione in termini. Ma fare il cercatore non è un lavoro come un altro: il cercatore è animato da una passione o forse da un’ossessione che lo condanna ad essere cercatore per tutta la vita.

In queste condizioni l’alcool è ben più che uno svago: l’alcool è il motore stesso della ricerca. Una vita così dura senza una valvola di sfogo non potrebbe essere sopportata a lungo, per questo, nei negozietti che si trovano al lato delle miniere, i prezzi della birra sono più bassi che in città, nonostante l’accesso per i rifornimenti sia ben più difficoltoso. Sono mantenuti artificalmene bassi dagli stessi padroni delle miniere che hanno bisogno di contenere le tensioni. L’importante è che vi sia ordine e sono gli stessi minatori che se ne fanno carico. Non c’è polizia nella zona delle miniere e neanche l’esercito: non servono. Dalla regione gli stessi cercatori hanno cacciato la guerriglia negli anni ‘80 ed oggi sono poche famiglie che esercitano il controllo sulla zona. Lo fanno attraverso i pajaros (uccelli), nome tristemente noto nella storia colombiana e che indicava le milizie protagoniste della guerra civile che negli anni ‘50 hanno insanguinato il paese. Le armi sono bene in evidenza, ma la violenza ha qualche cosa di impalpabile: le questioni vengono risolte al ponte, dove s’intreccia il racconto per bambini di un enorme cane nero che la notte sbrana chi vi si avventura.

E’ un cane che si morde la coda: ragazzi di venti anni arrivano con la speranza di arricchirsi, ma sono perfettamente consapevoli della vanità delle proprie speranze. Coltivano il sogno di andarsene da Muzo, vogliono andare negli Stati Uniti o in Spagna, ma sanno benissimo che non troveranno mai la pietra, lo leggono negli occhi di quelli che da quaranta anni ancora la cercano. Continuano però a sperare ed a cercare l’agognata pietra, il sogno verde. Dal momento che la ricchezza viene dal cielo, è il cielo stesso che si occupa dei minatori. Un ragazzo con la mano fasciata mi mostrala profonda ferita alla mano che si è procurato scavando; quando gli chiedo se non ha paura di prendersi un’infezione e se non sia il caso di farsi vedere da un dottore, mi risponde che non ha bisogno di dottori, che la protezione gli viene da qualche santo in paradiso e che l’unica cosa che importa é trovare la pietra. Non ci sono ferie, non ci si mette in malattia, l’ossessione della ricerca, lei, non conosce pause e non li abbandona mai, neanche quando sono feriti o disperati.

Questo fatalismo porta ad una precarietà delle condizioni di vita ancora più stupefacente. Il livello di speranza è proporzionale al livello di frustrazione. Tutto ciò si riflette nei rapporti sociali tesi, nell’alto consumo d’alcool, nella disarticolazione familiare e comunitaria e nella sfiducia mutua. Tutta l’energia è riposta nella ricerca degli smeraldi, facendo dimenticare altri aspetti importanti della vita come le relazioni umane. Il vedere le proprie speranze frustrate può avere conseguenze deleterie soprattutto per i bambini, perché in tenera età sono le stesse speranze che li motivano e li fanno crescere. Nei quartieri a ridosso delle miniere si riuniscono famiglie intere dedite alla stessa frenesia disperata: gli uomini cercano nelle miniere, mentre le donne ed i bambini si occupano soprattutto di setacciare ciò che viene riportato alla superficie. Il mestiere è tramandato di padre in figlio e tutto quello di cui si ha bisogno sono solo un paio di stivali, di conseguenza c’è la convinzione che mandare i bambini a scuola sia completamente inutile.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro è presente nella zona e cerca di portare avanti, attraverso il programma IPEC, un’attività per offrire una prospettiva agli abitanti e combattere al tempo il lavoro infantile. Uno dei principi seguiti è di sensibilizzare le famiglie sull’importanza della scuola per la costruzione di un futuro e di rafforzare la fiducia tra le persone affinché possano trovare soluzioni collegialmente. L’idea è quella di superare la frammentazione della comunità attraverso la creazione di cooperative per permettere ai cercatori di fare lavori che costituiscano un’entrata supplementare per le famiglie. In questo modo viene meno una delle condizioni che porta al lavoro infantile: la povertà. La cooperativa che stava vedendo la luce, al momento della mia presenza, nel quartiere di “Matecafé”, al lato delle miniere, puntava a costituire un allevamento di quaglie; attività prevedibile, dal momento che nei ristoranti di Muzo le uova di quaglia sono presenti in tutti i menù, ma regolarmente assenti dai piatti perché introvabili. Adesso la cooperativa si è ben consolidata e costituisce un’attività importante per la comunità.

Nonostante tutto però le condizioni restano molto difficili, ed i risultati sono lenti da conseguire. Nel frattempo la vita continua in mezzo all’acqua, al fango ed alle zanzare, alla ricerca di smeraldi, in un paradiso straziato, verde come il sogno che stanno inseguendo.

Rinascimento di un popolo: il caso dei Muiscas in Colombia


In Colombia una popolazione indigena che si riteneva estinta, annichilata dalla storia, è riemersa. Si tratta dei Muiscas della regione di Bogotà, che hanno ottenuto dallo Stato il riconoscimento della loro identità indigena. Questo processo va sotto il nome di re-etnizzazione, concetto non esente da equivoci. Ne parliamo con François Correa, docente d'antropologia all'Universidad Nacional di Bogotà e direttore dell'equipe che si è occupata di questo processo.

In che consiste il processo di re-etnizzazione?

Anzitutto, bisogna sgombrare il campo da alcuni equivoci legati a questo termine. Il concetto di re-etnizzazione evoca la rivendicazione da parte di popolazioni indigene di caratteristiche precolombiane ed è il criterio utilizzato dallo Stato colombiano per accordare diritti alle minorita'. Abbiamo qui la prima confusione. Sono trascorsi più di 500 anni dalla conquista. Gli indios di oggi non sono più quelli di ieri: hanno subito una serie di trasformazioni, frutto di un processo d'incorporazione ma anche di resistenze nelle relazioni con l'altro. Molte popolazioni hanno trasformato le loro caratteristiche socioculturali, perdendo tratti della loro economia e della loro organizzazione politica precolombiana. Società indigene isolate non possono essere concepite. Non ci sono società indigene che pretendano tornare al loro passato precolombiano e che ignorino l'influenza delle trasformazioni storiche. Parlare di re-etnizzazione quindi è piuttosto il risultato di un'incomprensione storica che non prende in considerazione né le trasformazioni della storia, né la coscienza che questi popoli ne hanno. Oggi ci sono comunità che rivendicano non solamente il loro passato indigeno, bensì le tradizioni attuali che apparentemente li vincolano con tradizioni storiche che considerano indigene. È per loro che si applica il concetto di re-etnizzazione.

Qual è la posizione dello Stato colombiano di fronte a queste rivendicazioni?

Di assoluta negazione! Ovviamente! Lo Stato colombiano si trova di fronte a due difficoltà: riconoscere diritti specifici accordati ad altre popolazioni indigene colombiane e, cosa ancora più importante, ammettere che la sua concettualizzazione dell'elemento indigeno è sbagliata. È finalmente un'incapacità dello Stato nel riconoscere differenze non solamente socioculturali nel paese, bensì nell'esercizio dei diritti. In parole povere: mentre il diritto al territorio di popolazioni indigene si ha, regolarmente, in zone marginali dove le attività tradizionali sono legate alla terra, in città invece le loro attività non sono diverse da quelle di qualunque altro cittadino. Questo pone una difficoltà nella concezione non solamente dei diritti delle minorità ma anche dei cittadini. E questo, effettivamente, ancora non è stato risolto.

Ci puoi parlare di un caso concreto?

Posso citare un caso: i Muiscas. Questi si trovano a Bogotà e nei paesi vicini ed hanno finito per costituire un precedente giuridico, politico e sociale molto importante. In principio, le collettività che si rivendicano Muiscas non erano riconosciute come indigene. Relativamente alla distribuzione di terre e all'organizzazione politica, la disputa delle popolazioni indigene con lo Stato comportava un'enorme difficoltà nel riconoscimento dei loro diritti riconosciuti dalla costituzione colombiana, come il diritto ad autorità di governo proprie con una giurisdizione propria e, di conseguenza, il riconoscimento di territori propri. Tutto cio' è stato un elemento assolutamente innovativo in America Latina, ma si trasforma in una difficoltà non appena appaiono nuove popolazioni che si rivendicano come indigene ed in misura ancora maggiore quando avviene in territori urbani, come nel caso dei Muiscas.

Qual è stato il lavoro svolto dalla tua equipe?

Si e' cercato di mostrare gli elementi che vincolano molti dei loro tratti attuali con una tradizione precolombiana e le trasformazioni occorse. A partire da ciò, ho fatto due cose: una ricerca sui Muiscas del XVI-XVII secolo e su quelli di oggi. Nell'analisi sul XVI secolo, ho trovato un riferimento fondamentale al simbolo delle lagune che rappresentano la soglia tra il mondo dei vivi e degli antenati. Cio' avviene anche oggi, ma in questo momento non sono io a fare la scoperta, al contrario sono loro che mi raccontano che le lagune operano come soglie. Per loro è una cosa ovvia. L'unica cosa che io faccio è scoprire una serie di elementi che vincolano questa gente al passato.

Quali sono le difficoltà che hai trovato?

L'apprensione della comunità scientifica, a parte quella del ministero, rispetto al fatto che queste popolazioni fossero realmente indigene. In generale il mondo accademico delle scienze sociali considerava, con argomenti validi che questa gente non era e non poteva essere Muisca. I linguisti sostenevano che non esistono vincoli linguistici tra la gente di oggi e quella precolombiana. Ma c'era anche un'enorme difficoltà nella gente stessa. A mio parere, molti diffidavano delle loro stesse tradizioni culturali e cercavano alternative. I Muiscas di Chia, in particolare, avevano importato tradizioni culturali da altre popolazioni indigene della Colombia, realizzando così rituali amazzonici distinti dalle tradizioni andine: stavano cercando di rivendicare quel vincolo che li rendeva indigeni. Non sapevano che nelle loro tradizioni attuali e quotidiane si trovavano i loro elementi. Inoltre, il riconoscimento era un'esigenza dello Stato e bisognava giustamente attenersi alle domande che formulava. Lo Stato ha una serie di elementi in base ai quali identifica un gruppo come indigeno: esige dagli indigeni una serie di tradizioni precolombiane ed un territorio. Sono criteri assolutamente paradossali perché la storia dei popoli indigeni è una storia di depredazione e annichilimento. Tuttavia questi sono i criteri ai quali bisognava attenersi.

Da chi era composta l'equipe e com'era la relazione con la comunità?

L'equipe era composta da 4 antropologhe, 3 avvocati, uno storiografo ed una comunicatrice sociale. Confesso che all'inizio del lavoro ho posto crudamente la stessa domanda che mi aveva fatto il ministero: “Queste persone per voi sono indigene?”. Perfino tra le 4 antropologhe, 3 consideravano che non si poteva dimostrare che questa gente fosse indigena. Allora dissi: “Molto bene! Questo è il vostro punto di vista, ma qui facciamo un lavoro in cui i dati, le informazioni, le conversazioni, la partecipazione producono un risultato. Non atteniamoci solamente alle nostre idee, bensì vediamo qual è questo risultato!”. Progressivamente le persone dell'equipe, entrando nelle comunità, hanno cominciato a trasformare non solamente il loro vissuto, ma anche i dati che venivano raccolti ed organizzati. Siamo stati inclusi nella comunità perché si son fidati del lavoro che poteva uscire. Non si è tentato solo di raccogliere informazioni scientifiche, ma si e' conversato con la gente e partecipato ai “pagamentos” (rituali di offerta alla terra). Alla fine del lavoro i membri dell'equipe hanno finito per convincersi. È stato impressionante! È stato un lavoro molto rigoroso ed esigente, perché inoltre il ministero ci chiedeva dei risultati in 3 mesi, con molto poco denaro ed in condizioni di enorme pressione.

Come si coordinano ed articolano le distinte comunità che si rivendicano Muiscas?

Abbiamo avuto la fortuna che in quel momento c'era un progressivo accordo tra le distinte comunità dell'altopiano. È vero che la dinamica fondamentale poggiava su alcune di queste, tuttavia il tema si è generalizzato ed il referente socioculturale, cioè il riconoscimento come Muiscas, si è trasformato in un referente politico di discussione con lo Stato. Questo mi sembra molto interessante, più ancora che l'identità culturale o indigena, cioè che un altro tipo di organizzazioni comunitarie, diverse da quelle che avevano fallito in Colombia, trovano adesso un punto di riferimento nella discussione con lo Stato. Di conseguenza, queste comunità hanno cominciato a rivendicare una serie di diritti: sociali, economici, politici. In definitiva avanzavano la rivendicazione sociopolitica come popolo. Era questo che realmente chiedevano.

Quali sono gli elementi che permettono di identificare questi gruppi come Muiscas?

Il criterio che per me è il più importante e che ha più risalto nella relazione, oltre al riconoscimento dell'etnicità come fatto storico, è il criterio soggettivo: non solo questa gente rivendica se stessa come Muisca, bensì manifesta la decisiva persistenza di quell'indianità all'interno della società nazionale. E infine, altro elemento fondamentale, è che hanno deciso di continuare come indigeni, cioè di proiettarsi al futuro. Vi sono ingegneri, architetti, ma condividono tutti una serie di relazioni comunitarie che si sono ricreate durante il processo, generate dalla "ostinata" decisione di continuare ad essere indigeni. Si mantiene perciò una proprietà comunitaria, si realizzano regolarmente lavori collettivi, si compiono rituali. Questi elementi di solidarietà sono stati le trasformazioni più poderose e sono stati generati da un'organizzazione politica propria, distinta dalle forme tradizionali di organizzazione politica nello Stato colombiano. L'esercizio dell'autorità politica assume un carattere completamente distinto: le autorità non hanno salario, lavorano per la comunità per organizzare questo senso comunitario. Ci sono inoltre altri elementi come forme d'appropriazione della terra, di comunicazione all'interno delle case, un'appropriazione del territorio marcata da eventi simbolici religiosi. Questi elementi persistono nella comunità ed hanno tratti evidentemente precolombiani.

Che impatto ha questo processo sugli altri gruppi indigeni?

La popolazione indigena in Colombia non è omogenea e neanche la sua partecipazione alla società nazionale. Perfino all'interno di certi gruppi etnici si trovano differenze e tensioni. Il riconoscimento dei Muiscas come indigeni pone una questione spinosa per gli altri gruppi. Nella Sierra Nevada di Santa Marta vi sono 4 gruppi indigeni, tra cui il popolo indigeno più riconosciuto in Colombia, i Kogui, identificati da un abbigliamento tradizionale, ed i Kankuamo, che al contrario non lo utilizzano e non parlano la propria lingua nativa. I Kankuamo erano percio' considerati integrati alla società nazionale. Per loro è iniziato da circa 15 anni un processo di riconoscimento come popolazione indigena. Questo relativizza per i Kogui il significato di indigeno. In qualche modo i Kogui condividono una lettura simile a quella di alcuni occidentali su chi è più indigeno e chi meno, che dipende dal grado di differenziazione dalla società nazionale. C'è qui un'idea di primitivismo che influenza la percezione dell'altro. Gli elementi generati in qualche modo dall'antropologia per distinguere i gruppi etnici hanno permeato lo Stato, ma anche la popolazione indigena. Questa situazione produce interrogativi ma anche tensione rispetto alla loro partecipazione alla società nazionale. Ad un certo punto, si è anche insinuato che alla base del processo di re-etnizzazione ci fosse un certo opportunismo. Alcuni settori indigeni consideravano che queste genti volevano sfruttare i risultati della prolungata lotta del movimento indigeno. La tensione è stata così prolungata e forse non del tutto risolta. Tuttavia, le organizzazioni indigene più importanti del paese hanno accompagnato il processo ed hanno accolto effettivamente i Muiscas.

Quali sono i risultati di questo processo?

Alcuni sono visibili ed altri stanno per vedersi. Penso che questo processo cambierà la nostra percezione sui popoli indigeni in Colombia. Il riconoscimento dei Muiscas introduce il principio che i popoli indigeni non sono società statiche, bensì società in movimento, e questo apre un divario enorme sulla comprensione dell'elemento indigeno. In secondo luogo, ciò può produrre trasformazioni poderose nel riconoscimento dei diritti etnici nel Mondo. L'Unesco si è espressa per il riconoscimento di una serie di diritti parziali, come il diritto al territorio, ad un'organizzazione politica e ad un'educazione propria. Progressivamente si può produrre una trasformazione nel riconoscimento della differenza e della diversità, perché non ci sia non solamente la possibilità di esercitare caratteristiche proprie, bensì di pensare il proprio futuro in maniera differente. Non bisogna solamente pensare ad un'opposizione tra oriente ed occidente, bensì al riconoscimento di distinte alternative nel mondo. Questa è la mia speranza.

Cosa implica la discriminazione positiva che questo processo presuppone?

In generale, non si tratta solamente di una lotta per il riconoscimento di diritti ed identità particolari, bensì di una lotta per la partecipazione all'interno della società nazionale e costituisce un progetto politico. Altri strumenti politici sono stati assolutamente inefficaci per ottenere la partecipazione sociale di segmenti di popolazione dentro un progetto nazionale. Questo è stato un enorme successo per questi popoli ed è stato molto più sentito proprio perché fa riferimento a quegli elementi che li pongono in relazione col resto del paese. Questo, a mio parere, è l'elemento più importante che può risaltare. Ci sono state molte altre forme organiche proposte alla popolazione indigena dai partiti tradizionali, ma questo ha un accento realmente distinto.

Non si rischia di creare una frattura nella società colombiana riconoscendo diritti particolari?

È possibile! Ma i Muiscas, in primo luogo, sono aperti. Essi considerano che anche i loro vicini contadini dell'altopiano sono Muiscas; hanno in effetti le stesse caratteristiche. Sono aperti al riconoscimento di genti distinte in questo progetto sociale, culturale e politico. D'altra parte le stesse organizzazioni indigene tessono alleanze con settori distinti e sono aperte ad un progetto politico più ampio, che vincoli ovviamente settori popolari. Paradossalmente il progetto, che poggia su rivendicazioni specifiche, ha una portata nazionale. Non bisogna vederlo solamente in termini di caratteristiche indigene, bensì di progetto sociopolitico. È la possibilità di rivendicare la propria storia che è anche la storia dei contadini vicini. È il riconoscimento e non la dispersione generale all'interno di una società amorfa, ambigua, centrata sull'individuo. Il rischio esiste, ma è anche un'opportunità, senza dubbio.

Questo progetto colombiano può creare un esempio di integrazione?

Uno degli elementi fondamentali che si è sviluppato nei popoli indigeni, in America Latina, è il concetto di diversità, di multiculturalismo e di interculturalismo. Vi sono elementi che permettono di parlare di un'indianità condivisa, ferme restando le particolarità di ogni popolo. L'articolazione tra elementi interculturali permette la comunicazione tra i popoli per il fatto di condividere rivendicazioni comuni, ma anche per la coscienza di sapersi differenti, di sapere che nella propria cultura sono distinti, che le loro lingue sono distinte, che hanno un territorio specifico, che hanno una cultura specifica, condividendo però condizioni comuni, cioè situazioni di oppressione e di dominazione. Questo gli dà una dimensione molto più ampia della possibilità dello sciovinismo, cioè della mera rivendicazione delle particolarità specifiche di ognuno dei popoli. È un progetto politico transnazionale che permette loro di sottrarsi al rischio dell'isolamento. Dici di più: questa internazionalizzazione è ciò che permette loro una forza locale.

mardi 29 avril 2008

Sruttamento sessuale commerciale infantile

Intervista con Maritza Diaz e Pedro Andrés Gonzalez, consulenti esterni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro della Colombia. L'ILO ha pubblicato una ricerca sullo sfruttamento sessuale infantile in America Latina "Uno studio qualitativo sulla domanda nello sfruttamento sessuale commerciale di adolescenti (ESCI)". Maritza Diaz e Pedro Andrés Gonzalez sono due dei quattro investigatori che hanno composto l’equipe che si è occupata del caso della Colombia.

Ci potete spiegare come è articolato lo studio?

Maritza Diaz: Lo studio fa parte del programma IPEC (International Program for the Erradication of Child Labour) che comprende il progetto "Tessendo reti" contro lo sfruttamento commerciale sessuale infantile di bambini, bambine ed adolescenti in America Latina e che si sta portando avanti in 4 paesi: Paraguay, Cile, Perù e Colombia. Il progetto ha una componente investigativa che ha cercato di esplorare il fenomeno a partire dalla domanda, cercando di comprendere il modus operandi dei clienti e la situazione di vulnerabilità dei minori. In ogni città, due per ogni paese, sono stati individuati due scenari di sfruttamento sessuale: uno femminile ed uno maschile. Lo studio, mirato ad identificare il cliente, si articola in 4 prospettive: una prospettiva di potere, una prospettiva culturale, una prospettiva psicologico-descrittiva ed una prospettiva normativa.

Qual è il contributo di questa ricerca e come si colloca rispetto agli altri studi?

Pedro Andrés Gonzalez: Si tratta praticamente del primo lavoro di questo tipo in Colombia, infatti negli studi precedenti l’aspetto della domanda non era stato quasi preso in considerazione. Il fatto poi che abbiano partecipato allo studio ricercatori con profili distinti ha permesso scoperte da ogni prospettiva e ci ha fornito una descrizione dei clienti. Abbiamo scoperto che a in Colombia molti clienti hanno anche un ruolo di intermediazione come, per esempio, i tassisti. Abbiamo inoltre visto che i clienti presentano caratteristiche di dipendenza: stabiliscono con i minori delle relazioni che hanno un carattere consumistico e di dipendenza, nel senso che sono relazioni compulsive stereotipate e stabiliscono vincoli aggressivi, cambiando costantemente persona e la maniera di sfruttarla. Ci siamo resi conto che questo tipo di relazioni si stabilisce a volte congiuntamente al consumo di droghe ed alcool e questo ci sembra un punto importante che varrebbe la pena continuare a studiare.

Cosa differenzia lo sfruttamento sessuale da un altro tipo di sfruttamento?

M.D.: Per prima cosa chiariamo in che si somigliano. Come nell’ordine sociale ed economico, il tipo di relazione nell'ESCI è di dominio, di sottomissione. La maniera in cui si esercita il controllo ed il potere si riflette nel profilo di uno sfruttatore. Su dieci sfruttatori nove sono uomini e questo risponde già ad una logica di società patriarcale. La relazione tra un uomo ed il suo oggetto sessuale riproduce l'ordine patriarcale della società e l’ordine economico associato alla merce secondo cui la transazione economica è fonte di legittimità. In questo senso, al pagare la prestazione sessuale, gli sfruttatori considerano che non stiano commettendo un abuso. Le stesse vittime ritengono che ci sia un abuso nella transazione sessuale solamente quando non ci sia il pagamento della prestazione. In generale, questo è il risultato a cui si è arrivati con abbastanza chiarezza: come nell'ordine sociale ed economico, le relazioni di iniquità e di dominio si riflettono nella costruzione della situazione e negli aspetti più intimi, come la transazione sessuale. Abbiamo trovato una quantità di analogie tra l'ESCI ed altri ambiti della società dove c'è lo stesso schema di sottomissione e di controllo. Però, fondamentalmente, ciò che marca la differenza riguarda gli aspetti psicologici centrati nella sfera sessuale.

P.A.G.: Nella relazione di coppia, questi individui cercano degli oggetti, cioè persone di cui fare uso o consumo, si cerca cioè di utilizzare l'altro come una cosa. C'è effettivamente una forma di sfruttamento, che non colpisce solamente il corpo ma tutta la struttura psichica. I minori sono oggetti di un desiderio estremamente degradato e probabilmente, se non esistesse lo sfruttamento sessuale e commerciale, non ci sarebbe spazio per soddisfarlo.

Nella prospettiva di potere ricorrete alla definizione di Bourdieu, secondo cui il potere è una relazione dove individui distinti attuano con dinamiche differenti, ognuno con una strategia propria inserita in un ordine sociale. A quali conclusioni vi porta questa impostazione?

M.D.: Per molto tempo, le ricerche si sono incentrate sulle patologie presenti nello sfruttatore. Considerare lo sfruttatore solo dal punto di vista patologico comporta il rischio di giustificarlo in quanto malato. A questa posizione ne è seguita un’altra secondo cui lo sfruttatore è un sintomo dei mali della società: è la società ad essere malata, non l'individuo. Ognuna delle due impostazioni, presa da sola, finisce finalmente per togliere responsabilità a tutti. Le responsabilità della società e della persona risultano vaghissime. Si è cercato allora d’intraprendere un percorso che non si trovasse in nessuno dei due estremi. La conclusione cui arriva lo studio è che non c'è un profilo unico di sfruttatore: è molto chiaro che si tratta di un'opzione inserita in un sistema di riproduzione sociale, di potere, con caratteristiche come quelle che espone Bourdieu, in cui c'è effettivamente una complessa dinamica di relazioni. Le vittime stesse non sono soggetti esclusivamente passivi, secondo un’idea confusa di vittima. I minori sfruttati sessualmente adottano delle strategie variabili all’interno della propria situazione di vulnerabilità, la qual cosa rende più complessa la relazione tra sfruttato e sfruttatore così come la percezione che questi ha delle proprie azioni.

Perché lo sfruttatore si rivolge ai minori piuttosto che agli adulti per soddisfare le proprie pulsioni sessuali?

P.A.G.: Sono individui che cercano in maniera perentoria di soddisfare il proprio desiderio sessuale e cercano una tipizzazione in un oggetto. Questi individui non cercano prostitute adulte perché in qualche modo hanno una gran paura di andare con donne. Quello che più troviamo nella prostituzione femminile è che cercano adolescenti perché hanno idea che siano meno "usate". L'idea che sta dietro ciò, per la scelta dell'oggetto e l'intensità del desiderio, è che è precisamente con queste adolescenti che essi possono avere questo tipo di sessualità; tuttavia non raggiungono la soddisfazione perché vivono una perentorietà costante ed una necessità di tornare ancora a queste adolescenti per seguire in un ciclo quasi di assuefazione. Invece nella prostituzione adulta abbiamo potuto vedere che gli adolescenti si costituiscono nell'oggetto del desiderio degli omosessuali. Diciamo che nella prostituzione adulta omosessuale di uomini, il mercato è più centrato nelle caratteristiche di bellezza ed estetiche degli adolescenti ed una persona prostituta adulta uomo non è tanto gradita dentro questa ottica.

M.D.: Lo sfruttatore si muove dentro una logica di asimmetria ed egli stesso fa parte della società che giustamente riproduce. Non cerca relazioni su un piano di equità con l'altro ma, per quanto possibile, cerca di sottometterlo. Molti, in qualche momento della loro vita, hanno incominciato a cercare prostitute adulte, ma progressivamente il posto dove si sentono più comodi, più “se stessi” è con minori di età, dove ogni volta la distanza asimmetrica diventa più evidente. Ora, dal punto di vista normativo, essi sanno che stanno facendo del male. Parte della complessità di tutto ciò è che è pieno di ambiguità. Una parte dell'essere interno gli dice "no!". Si costruiscono allora una quantità di giustificazioni per riappacificare le ambiguità ed i confronti interni, ma allo stesso tempo, quando si parla loro delle conseguenze legali, sanno che lo sfruttamento sessuale è nocivo ed in questo senso hanno coscienza delle conseguenze che possono generare.

Il documento non parla di pedofilia, bensì di bambini, bambine ed adolescenti, di quelle persone cioè con uno sviluppo sessuale secondario. Perché questa scelta?

M.D.: Abbiamo insistito molto affinché si aggiungessero i minori di 12 anni nella ricerca perché le situazioni di degrado che abbiamo osservato nei vari scenari erano orribili e ci sembrava fondamentale includerli. Nella ILO c'erano, invece, ragioni per continuare ad avanzare strategicamente su differenti gruppi di età.

Quale è la relazione tra sfruttamento sessuale e criminalità?

P.A.G.: Questo tipo di attività è molto vincolato alla criminalità e alla marginalità. Per esempio nella Alameda, a Medellín, lavorano bambine, bambini ed adolescenti. Si tratta di un settore contiguo al quartiere Santa Fe che, a sua volta, è delimitato come zona di tolleranza di prostituzione adulta. Lì, gli adolescenti lavorano al margine e rimangono al di fuori delle condizioni stabilite dalla zona di tolleranza, cioè, di controlli, di sicurezza, di salubrità, etc. In uno dei posti dove abbiamo lavorato stavano sorgendo gruppi paramilitari che cominciavano a coinvolgere le bambine per organizzarle, poterle sfruttare in maniera criminale e vincolarle ad attività illecite. La situazione è estremamente cruda ed il futuro delle bambine è ignominioso: durante il lavoro di campo avevano assassinato una bambina in un motel, l'avevano squartata e l'avevano lasciata in una borsa di spazzatura. Sono così vulnerabili ed alla mercé di qualunque persona che non c'è nessuna possibilità che siano protette dalla legge, perché neanche la legge dice che bisogna proteggerle, ma al contrario protegge quelli che le sfruttano. Sono aggredite in un modo tale che finiscono sempre per perdere.

M.D.: Ovviamente in Colombia l'influenza del narcotraffico è evidente. A Medellín la vicinanza di gruppi paramilitari, come enti di controllo di questi spazi, è chiara ed è in grande crescita la relazione con la tratta di persone od il furto. Tutte le modalità di delinquenza si intrecciano fortemente attorno all'ESCI.

Come si combatte lo sfruttamento sessuale commerciale infantile?

M.D.: Un'opzione è cercare di “eliminarli” uno ad uno, ma con ogni probabilità questi continueranno ad apparire. Un'altra opzione è trasformare le condizioni che propiziano la loro riproduzione. Si tratta perciò di condurre un processo di costruzione di società in cui la promozione ed il rispetto dei diritti umani siano una realtà. Questo implica trasformare molte pratiche e valori tradizionali che reggono le relazioni economiche, generazionali e sessuali nel nostro modo di vivere. Ovviamente sono misure di lungo termine, il che non significa che azioni a breve termine non possano essere condotte: in primo luogo c'è da sottolineare il ruolo dei media affinché prendano in considerazione la domanda come fattore cruciale. La scuola può svolgere un ruolo importante e sarebbe importante che ci siano spazi con i docenti affinché questi comprendano che i loro gesti hanno un'influenza primordiale nel predisporre i ragazzi alla sottomissione di cui la ESCI costituisce una delle manifestazioni più drammatiche. L'altro lavoro importante è quello di rafforzare le vittime, che può essere anche più efficace rispetto alla semplice repressione dei “consumatori”. Sarebbe importante che in questa ottica si aprano linee di lavoro con sfruttatori o potenziali sfruttatori. Nel lungo termine bisogna promuovere invece una cultura sessuale basata su un approccio in cui il criterio per giudicare la legittimità di un incontro erotico si basi sul mutuo consenso indipendentemente dal fatto se l'incontro erotico avviene dentro istituzioni tradizionali come il matrimonio, o se avviene in modi diversi. È pertanto importante non basarsi su progetti sociali autoritari che permettano di avanzare verso una società democratica rispettosa dei diritti umani. Le politiche basate sulla repressione possono produrre risultati a breve termine, però sono anche manipolabili per generare crociate basate sul panico morale e la promozione dell'idea di andare a caccia di mostri, sviando così l'attenzione dalle trasformazioni sociali necessarie per una prevenzione integrale ed effettiva.